Raccontare storie: arte e impegno

Il fascino della narrazione come elemento fondante della magia del coinvolgimento nel racconto.

Essere buoni narratori non è semplice come si può pensare. Dall'aprire un libro e iniziare a leggere a creare l'alchimia che permette agli ascoltatori di sentirsi protagonisti del racconto il passo non è breve.

Tralasciamo il professionismo, che prevede studio della dizione, allenamento fonatorio e dell'articolazione, competenze in ambito teatrale e un'abilità di lettura avanzata che consenta di leggere il testo anticipando le righe successive. Ai bambini è sufficiente che l'adulto, meglio se affettivamente significativo, impieghi il suo tempo e dimostri la sua disponibilità per dedicarsi a raccontare.

Succede però che ci si trovi ad ascoltarsi durante la narrazione di una favola, e ci si accorga solo allora di quanto possano esserne intensi i contenuti. Se l’adulto lascia trasparire le proprie ansie e paure, i propri conflitti e gli aspetti inconsci non risolti suscitati da fiabe e favole, sarà inevitabile comunicare, rapportati a un particolare passo del racconto, sentimenti negativi.

Il rischio è che tali contenuti non trovino un corrispettivo in chi ascolta, che riceverà la componente ansiogena senza avere una situazione oggettiva personale alla quale riferirla. E’ possibile che si instauri così una paura non riferibile a una causa, e quindi difficilmente risolvibile spontaneamente ma che richiederà un’analisi specialistica che ne determini natura, origine e modalità di risoluzione, semplicissime ma difficili da individuare perché residenti in un’altra persona.

Quando le storie vengono lette, l’unica (ma non di scarsa rilevanza) variabile possibile è data da inflessione e intonazione. Una recitazione appassionata, magari supportata da sguardi e gesti, può arricchire notevolmente il racconto e risultare decisamente più coinvolgente. Inevitabilmente il narratore trasmette all’ascoltatore le emozioni suscitate in lui durante la lettura, ed è il motivo per cui nel proporre con fini educativi specifici favole appositamente studiate per un percorso di crescita, come le psicofiabe in pedagogia clinica, si chiede al genitore o al professionista di leggere senza particolari inflessioni.

Nel proporre una narrazione a memoria, privi cioè di un supporto cartaceo che costituisca una guida inequivocabile, intervengono invece numerose variabili. Innanzitutto l’enfasi e gli accenti che infiorano il racconto, indici dell’apporto emotivo individuale e dell’impatto che i contenuti della storia hanno avuto sul narratore. In secondo luogo i tempi di narrazione, perché ci si soffermerà più o meno su certi contenuti a seconda delle sensazioni che sono in grado di suscitare su chi racconta e sulla valutazione che egli continuamente può fare osservando le risposte di chi ascolta. Così si potrà ad esempio sorvolare su morti o abbandoni dei genitori nelle favole in cui i genitori risultano assenti, lasciando all’immaginazione dell’ascoltatore il compito di colmare eventuali buchi. Infine gli elementi che compongono il narrato, che possono essere aggiunti per arricchire un contenuto o per aggiungere spessore alla storia, omessi perché ritenuti arbitrariamente incongrui o troppo forti, o addirittura sostituiti quando ci si dimentica delle componenti originali o si trasmette una versione appresa già con modifiche sostanziali. Così, ad esempio, la fata madrina di Cenerentola descritta dai fratelli Grimm era, nella versione originale, lo spirito della madre morta incarnata in un albero. Gli adulti che si trovano a raccontare dopo anni di latitanza il mondo delle fiabe, spesso rimangono sconvolti dalla sua violenza apparente.

Se il loro mondo magico e fantastico ha lasciato il posto a una razionalità dettata dal “dover essere grandi”, più o meno inconsciamente, nel riproporre a figli o nipoti i racconti che appartengono alla propria cultura personale, effettueranno vistose omissioni, trasposizioni o sostituzioni. Questo perché sono portati ad affrontare razionalmente racconti che traggono la loro origine in immagini archetipiche e mitologiche, non rapportabili se non in minima parte a logica e razionalità. Per loro risulta sconveniente o eccessivo parlare di figli abbandonati, tradimenti, omicidi, ingiustizie o di punizioni e torture. Ma si tratta di una percezione causata dalla propria inadeguatezza nel rapportarsi con le favole. I bambini, al contrario, sanno che ciò che viene raccontato appartiene al mondo del “C’era una volta”, che accade in un paese “molto, molto lontano” o che i protagonisti sono spesso principi e principesse, re e regine che non trovano un corrispettivo nella vita reale e per i quali a grandi privilegi da potenti corrispondono rischi e pericoli almeno di pari gravità. Se non glielo si fa notare, difficilmente i bambini si accorgono del fatto che un racconto parli di un bimbo ma non dei suoi genitori, ad esempio, perché non è un fattore importante. Se in qualche modo il narratore si pone il problema, invece, facilmente si impappinerà nella lettura, si soffermerà troppo o troppo poco rispetto al solito, dimostrerà un qualche disagio con il corpo o con la voce e porterà quindi l’ascoltatore a focalizzare l’attenzione su un punto che non avrebbe altrimenti rappresentato nulla di particolare.

Per questo è importante collocare nel tempo e nello spazio ciò che viene raccontato: in questo modo è possibile evitare di confondere favola e realtà riuscendo a prendere dai racconti gli esempi positivi, l’esperienza indiretta, gli spunti per cavarsela in situazioni nelle quali ci si augura i non doversi mai trovare, senza rimanere invischiati dagli elementi negativi, dai cattivi di turno o dalla sorte avversa.

Con gli strumenti giusti è possibile superare ogni ostacolo